Un brindisi all’amore finito – da “Nel guscio” di McEwan

John Cairncross è un personaggio di Nel guscio di McEwan, romanzo di cui abbiamo parlato in un precedente consiglio di lettura  (e abbiamo trattato anche di un’altra opera dell’autore inglese: Cortesie per gli ospiti) .

L’opera non tratta il tema degli amori finiti; riprendendo l’Amleto di Shakespeare scava nel complotto, nella cupidigia, nell’inazione. Rispetto ai congiurati, Cairncross, destinato agli scomodi panni del padre del principe, è un personaggio di rottura. Poeta che non ha raggiunto la fama ma conosce l’arte di comporre versi tanto da insegnarla e soprattutto farla amare, editore sull’orlo del fallimento che ha valorizzato tanti autori poi passati a concorrenti più ricchi e potenti, è un uomo che ha dedicato la vita al bello piuttosto che al risultato economico.

Nel corso della storia, John dedica un brindisi a un argomento su cui tutti, prima o poi, ci siamo trovati a riflettere: l’amore finito. Senza aggiungere commenti, ecco le sue parole:

– Trudy, Claude, Elodie, forse sarò breve e forse no. Che cosa importa? Voglio dire una cosa. Quando un amore finisce e un matrimonio è a pezzi, la prima vittima è la memoria sincera, l’onesta, imparziale rievocazione del passato. Troppo scomodo, troppo in conflitto con il momento presente. È il fantasma dell’antica felicità al banchetto della rovina e della devastazione. Ecco perché, per contrastare il vento della dimenticanza, ci tengo ad accendere la mia modesta candela di verità e vedere quanto lontana arriva la sua luce. Quasi dieci anni fa, sulla costa dalmata, in un alberghetto senza vista sul mare, in una stanza circa otto volte più piccola di questa e in un lettuccio non più largo di un metro, Trudy e io ci tuffammo di testa nell’amore, nell’estasi, nell’abbandono reciproco, in una gioia e una pace a perdita d’occhio, senza tempo, indicibile a parole. Voltammo le spalle al mondo per inventarne e costruirne uno tutto nostro. Ci eccitavamo a vicenda fingendoci violenti, per poi viziarci e coccolarci come due bambini; escogitavamo soprannomi, creando una nostra lingua privata. Vivevamo al di là dell’imbarazzo. Ci davamo, ci prendevamo e ci permettevamo ogni cosa. Eravamo eroici. Convinti di aver raggiunto vette che nessun altro, nella vita come nella poesia, avesse mai toccato. Il nostro amore era talmente assoluto e puro da sembrarci un principio universale. Era un sistema etico, un modo di rapportarsi agli altri così elementare da essere stato in qualche modo trascurato. Quando ci coricavamo faccia a faccia su quel lettino e ci guardavamo dritto negli occhi chiacchierando, ci mettevamo letteralmente al mondo. Lei mi prendeva le mani e me le baciava e per la prima volta in vita mia non erano più motivo di vergogna. Le nostre rispettive famiglie, che ci descrivevamo nel dettaglio, finalmente assumevano un senso anche per noi. Le amavamo di un amore irruente, a dispetto di tutte le difficoltà del passato. Lo stesso valeva per i nostri migliori, e più importanti amici. Riuscivamo a redimere chiunque conoscessimo. Il nostro amore militava per il bene del pianeta. Trudy e io non avevamo mai parlato né ascoltato con altrettanta attenzione. Il nostro fare l’amore era l’estensione dei nostri discorsi, e viceversa.
Quando finì la settimana e tornammo per sistemarci qui in casa mia, l’amore proseguì per mesi, anni. Sembrava che niente potesse mai ostacolarlo. Perciò, prima di dire altro, lasciatemi brindare a quell’amore. Possa non essere mai negato, dimenticato, travisato o archiviato come un’illusione. Al nostro amore. È successo. È stato vero.

 

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