Il bar delle grandi speranze – A lezione da un premio Pulitzer tra gli alcolici

il bar delle grandi speranze di J.R. MoehringerIn genere le biografie dei grandi campioni dello sport, pur vendendo centinaia di migliaia di copie, vengono snobbate dalla critica di settore.

Così non è stato per Open, la biografia del tennista Andre Agassi, che è uscita nel 2011 e, oltre a diventare un best-seller internazionale, è stata ottimamente recensita. Questo perché Agassi ha avuto davvero una vita da romanzo – a differenza di altri campioni che, a parte aneddoti di campo o spogliatoio, avrebbero poche cose interessanti da raccontare – e soprattutto perché l’opera ha ricevuto un contributo sostanziale da parte di J. R. Moehringer, vincitore nel 2000 del premio Pulitzer per il giornalismo di approfondimento e costume per il suo ritratto di una isolata comunità fluviale in Alabama dove vivono molti discendenti di schiavi.

Prima di collaborare con Agassi, J. R. Moehringer ha pubblicato nel 2005 il suo primo romanzo: Il bar delle grandi speranze. Nell’opera, definita da diverse testate giornalistiche il miglior libro dell’anno, l’autore racconta la propria vita dall’infanzia fino ai venticinque anni, mettendo in risalto il ruolo di un luogo speciale, come si vede fin dall’incipit:

Ci andavamo per ogni nostro bisogno. Quando avevamo sete, naturalmente, e fame, e quand’eravamo stanchi morti. Ci andavamo se eravamo felici, per festeggiare, e quand’eravamo tristi, per tenere il broncio. Ci andavamo dopo i matrimoni e i funerali, a prendere qualcosa per calmarci i nervi, e appena prima, per farci coraggio. Ci andavamo quando non sapevamo di cos’avevamo bisogno, nella speranza che qualcuno ce lo dicesse. Ci andavamo in cerca d’amore, o di sesso, o di guai, o di qualcuno che era sparito, perché primo o poi capitava lì. Ci andavamo soprattutto quando avevamo bisogno di essere ritrovati.

Il luogo specialebar in questione è un bar, il Dickens (che poi diventerà il Publicans), ritrovo degli uomini di Manhasset, nello Stato di New York (la baia di Manhasset, a proposito di romanzi, è il luogo su cui si affacciano le fittizie East e West Egg de Il grande Gatsby). Il giovane J. R. è spinto verso il bar
da un’esigenza specifica:       

 

Il mio elenco personale di bisogni era lungo. Figlio unico, abbandonato da mio padre, avevo bisogno di una famiglia, di una casa, e di uomini. Specialmente di uomini. Mi servivano uomini come mentori, eroi, modelli, e come contrappeso maschile alla madre, la nonna, la zia e le cinque cugine con cui vivevo. Il bar mi ha fornito tutti gli uomini di cui avevo bisogno, e uno o due di cui avrei volentieri fatto a meno.

J. R. cerca quindi uomini che prendano il posto di suo padre. Il rapporto conflittuale con la figura paterna è qualcosa che torna spesso, nella letteratura americana. J. R. ha visto il padre pochissime volte, da bambino, ma sono state sufficienti per capirne la natura violenta. Naturalmente, questo non basta per far sì che lui non soffra per l’assenza del genitore. Particolare importante: il padre di J. R. lavora in una radio, e lui trascorre pomeriggi interi a cercare la frequenza giusta, e poi con la faccia incollata all’apparecchio, per sentirne la voce.

 Molto prima di avermi come cliente, il bar mi ha salvato. Mi ha ridato fiducia quand’ero bambino, si è preso cura di me quand’ero adolescente e mi ha accolto quand’ero un giovane uomo. Anche se siamo attratti, temo, da ciò che ci abbandona, o promette di abbandonarci, alla fine credo che sia quel che ci accoglie a segnarci. Naturalmente io ho ricambiato subito l’abbraccio del bar, finché una notte il bar mi ha messo alla porta, e abbandonandomi mi ha salvato la vita.

 Nel tempo, i problemi di J. R. non riguarderanno solo il padre. Ci saranno le ragazze, ovviamente, e ci sarà l’ansia di capire cosa fare della sua vita (l’avvocato? Il giornalista? Lo scrittore?).

La grandezza de Il bar delle grandi speranze sta nell’equilibrio e nella sincerità. Il dolore per le delusioni e i fallimenti è struggente, come lo è sempre per chi crede davvero in qualcosa o qualcuno, e J. R. finisce spesso al tappeto. In qualche modo, da solo o grazie ad altri, si rialza ogni volta, ma le sue risalite non hanno mai il tono dell’evento scontata.

Tra le varie persone che incontra il narratore-protagonista, c’è un prete che gli dice una cosa bellissima proprio sullo scrivere.

– Posso dirti una cosa? – fece il prete. – Sai perché Dio ha inventato gli scrittori? Per farsi raccontare una bella storia. E non gliene frega niente delle parole. Le parole sono la cortina che abbiamo messo fra Lui e il nostro vero io. Cerca di non pensare alle parole. Non intestardirti sulla frase perfetta. Non esiste. La scrittura è un’opera di congettura. Ogni frase è un’ipotesi sensata, tua e del lettore. Pensaci, la prossima volta che infili un foglio nella tua macchina da scrivere.

 

Consigli di lettura su altre opere di formazione:

Educazione di una canaglia di Edward Bunker

Memoria di ragazza di Annie Ernaux

Avventure della ragazza cattiva di Mario Vargas LLosa

Le otto montagne di Paolo Congetti

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