Scrivere di scrittori – Paul Auster e La stanza chiusa

Nel suo romanzo breve La stanza chiusa, Paul Auster ci racconta, tra le altre cose, di uno scrittore immaginario e delle sue opere, naturalmente fittizie. È una dinamica con cui è difficile confrontarsi, perché porta con sé il rischio di esprimersi per luoghi comuni, senza riuscire a convincere il lettore, senza farlo sentire davvero dentro la storia.

Paul Auster, però, in questa dinamica si muove a meraviglia, avendo spesso scritto di scrittori (anche il protagonista di Follie di Brooklyn, Nathan Glass, è alle prese con la scrittura di un libro) in modo convincente.

La stanza chiusa, che compone insieme a Città di vetro e Fantasmi la Trilogia di New York, inizia con la ricezione, da parte del narratore, di una lettera inviata da Sophie, moglie del suo amico Fanshawe.

Per il narratore, Fanshawe non è solo un buon amico di gioventù perso poi di vista per i casi della vita, è molto di più. I due sono cresciuti insieme, inseparabili, e per il narratore l’altro era un vero e proprio mito, con tutti i tentativi di imitazione e i conflitti che ne seguono.

Adesso Fanshawe è scomparso, e la moglie chiede aiuto al narratore, ma non per ritrovarlo:

 Uno giorno, tre o quattro mesi prima di scomparire, Fanshawe le offrì un compromesso, promettendole solennemente che entro un anno si sarebbe dato da fare, e aggiungendo a prova della sua sincerità che se per qualsiasi ragione non fosse riuscito a mantenere l’impegno, lei avrebbe dovuto consegnarmi tutti i suoi manoscritti e lasciarli a mia disposizione. Io sarei stato il custode della sua opera, spiegò, e stava a me deciderne la sorte. Se l’avessi ritenuta degna di pubblicazione, lui avrebbe accettato il mio giudizio. Aggiunse inoltre che se nel frattempo gli fosse capitato qualcosa, lei avrebbe dovuto consegnarmi immediatamente i manoscritti delegandomi qualunque iniziativa, fermo restando che se le sue opere si fossero rivelate remunerative, a me sarebbe toccato il venticinque per cento dei diritti. Se invece avessi giudicato i suoi scritti inadeguati, avrei dovuto restituire i manoscritti a Sophie che li avrebbe distrutti dalla prima all’ultima pagina.

 Fanshawe, in pratica, ha scritto per tutta la vita (lasciando infatti un intero armadio pieno di taccuini, quaderni e cartelle), ma non ha mai neanche cercato di essere pubblicato. La cosa non stupiva chi lo conosceva e lo sapeva essere molto più interessato alla propria interiorità che a riconoscimenti esterni, ma, in ogni caso, arriva il momento di valutare la sua intera opera. Tale momento viene introdotto, da Paul Auster, con tutto il carico emotivo provato dal narratore:

Scoprii che, se non volevo che l’opera di Fanshawe fosse mediocre, non volevo neppure che fosse interessante. Mi è difficile spiegare questo sentimento. Sicuramente era legato alle vecchie rivalità, al desiderio di non essere umiliato dalla genialità di Fanshawe, ma nasceva anche dalla sensazione di essere stato preso in trappola. Avevo dato la mia parola. Una volta aperte le valigie, sarei diventato il portavoce di Fanshawe e, lo volessi o no, avrei parlato in vece sua. Entrambe le possibilità mi atterrivano. Pronunciare una condanna a morte era orribile, ma lavorare per un morto non sembrava molto meglio.

 La tensione trasmessa dai sentimenti contrastanti che il narratore prova verso l’amico scomparso fa sì che il lettore sia davvero coinvolto dalla storia de La stanza chiusa, ma è quando arriva l’obbligo di giudicare finalmente gli scritti di Fanshawe che Paul Auster ci regala un’importante lezione. Mettere in fila una sequenza di aggettivi, o descrivere le trame immaginate da Fanshawe, probabilmente non funzionerebbe, e Auster scrive così:

In questa sede non scenderò nei particolari. Ormai tutti conoscono le qualità dell’opera di Fanshawe. È stata letta e commentata, si sono scritti articoli e saggi, è diventata di dominio pubblico. Se posso aggiungere qualcosa, è solo che non mi occorse più di un’ora o due per capire che i miei sentimenti personali erano irrilevanti. Amare le parole, investire una parte di sé in quello che è scritto, credere nel potere dei libri: tutto ciò sommerge il resto, e al confronto la propria vita individuale diventa insignificante. Non dico questo per autoelogiarmi o porre le mie azioni in una luce migliore. Fui il primo, ma a parte questo non vedo niente che mi distingua da chiunque altro. Se l’opera di Fanshawe avesse avuto un po’ meno valore, il mio ruolo sarebbe stato diverso: forse più importante, più decisivo per l’esito della storia. Ma in effetti non fui altro che uno strumento invisibile. Un fenomeno era in atto, e a meno di negarlo, a meno di fingere di non avere aperto le valigie, avrebbe continuato a manifestarsi, abbattendo ogni ostacolo, procedendo di slancio. 

Già nelle prime due righe del paragrafo, Paul Auster risolve il problema di convincerci che l’opera di Fanshawe sia buona, interessante, ricca di valore. Non ce n’è bisogno, perché ormai tutti conoscono le qualità dell’opera di Fanshawe. Sfruttando il raccontare da un tempo futuro rispetto alla prima analisi degli scritti, il narratore sa già cosa è successo tra quel momento e il suo presente, e questa conoscenza gli permette di usare l’anticipazione sia per eludere il problema di cui sopra, sia per aumentare la suspense. Paul Auster ci conferma infatti che la suspense non si crea tacendo al lettore le informazioni, ma fornendogli quelle giuste. Nel caso specifico, infatti, il lettore non si chiederà più se l’opera di Fanshawe abbia valore o meno, ma avendone certezza (e avendo certezza dal successo riscosso), si ritroverà alle prese con altre domande che lo spingeranno a proseguire la lettura.

Naturalmente questo tipo di tecnica non può essere opportuna in ogni circostanza, ma è si sposa perfettamente con lo stile di Paul Auster, col suo modo di creare universi narrativi e co l suo modo di rivolgersi al lettore. A tal proposito, si può prendere in considerazione il finale di Fantasmi, o l’estratto che segue, sempre da La stanza chiusa.

 La conclusione, tuttavia, mi è chiara. Non l’ho dimenticata, ed è una fortuna che mi sia rimasta almeno quella. Tutta la storia si restringe al suo epilogo, e se ora quell’epilogo non l’avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro. Lo stesso vale per i due che lo precedono, Città di vetro e Fantasmi. In sostanza, le tre storie sono una storia sola, ma ognuno rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza di essa.

 

 

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