La definizione di arte e narrativa secondo la grandissima Flannery O’Connor

Flannery O’Connor (1925-1964) è stata una delle scrittrici più importanti del secolo scorso, nonostante abbia iniziato a soffrire fin dai venticinque anni di una malattia cronica autoimmune – lupus eritematoso sistemico – che l’ha portata alla morte prima di compiere i quaranta.

Nel territorio del diavolo - flannery o'connor
Flannery O’Connor è nata a Savannah, in Georgia, e essere un abitante del Sud, prima ancora che una scrittrice del Sud, è una caratteristica fondamentale della sua narrativa.

Ha scritto due romanzi e una trentina di racconti (in Italia, un’edizione della Bompiani li raccoglie tutti), ed è stata invitata spesso a tenere conferenze all’interno di scuole e università.

Il volume edito da minimun fax, intitolato  Nel territorio del diavolo – Sul mistero di scrivere  comprende alcuni interventi dell’autrice.
Rivolgendosi agli studenti di un corso di scrittura, Flannery O’Connor definì il proprio concetto di arte:

[…] A questo punto sarà meglio che mi fermi e spieghi l’uso che faccio della parola arte. Arte è una parola davanti alla quale la gente batte subito in ritirata, perché troppo altisonante. Ma io, per arte, intendo semplicemente scrivere qualcosa che sia dotato in sé di valore e di efficacia. Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità, in senso immaginativo, né più né meno. San Tommaso ha detto che l’artista si cura della bontà di quel che crea; e questa dovrà essere la base del mio breve discorso in materia di narrativa.

Subito dopo, continua a collegare l’importanza della verità, del rapporto con il reale, con la scrittura:

[…] Il tipo di scritto che intendo affrontare è la storia, visto che è l’unico di cui sappia qualcosa. Chiamerò storia un testo narrativo di qualsiasi lunghezza, si tratti di un romanzo o di un’opera più breve, anzi la chiamerò storia ogniqualvolta personaggi e avvenimenti particolari si influenzino a vicenda formando una narrazione con un suo significato. A parere mio, quasi tutti sanno cos’è una storia finché non si siedono a scriverne una. A quel punto si ritrovano a scrivere un bozzetto intrecciato a un saggio, o un saggio intrecciato a un bozzetto, o un editoriale con dentro un personaggio, o un’anamnesi con la morale, o qualche altro ibrido. Quando si rendono conto che non stanno scrivendo storie, decidono che il rimedio sta nell’imparare quella che definiscono <<tecnica del racconto>> o <<tecnica del romanzo>>. Molti concepiscono la tecnica come qualcosa di rigido, una formula da imporre sul materiale; ma nelle storie migliori è qualcosa di organico, qualcosa che si sviluppa dal materiale, e quindi è diversa per ogni storia di qualche valore mai scritta.
[…] Una caratteristica della narrativa che ritengo il suo minimo comune denominatore è il fatto che sia concreta; la natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Alla maggior parte delle persone riesce molto più facile enunciare un’idea astratta anziché descrivere e quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi.

Dopo aver parlato di scrittori da cui ha imparato molto, come Flaubert e Henry James, Flannery O’Connor parla della forma del racconto:

[…] Per quanto mi riguarda, preferisco definire il racconto un evento drammatico che coinvolge una persona in quanto persona, e persona particolare, partecipe cioè e dell’umana condizione e di una specifica situazione umana. Un racconto implica sempre, in forma drammatica, il mistero della personalità. Ne ho prestati alcuni a una signora di campagna che abita in fondo alla mia strada, e lei me li ha restituiti dicendo <<Be’, sti racconti ti fanno proprio vedere come si comporta certa gente>>, e io ho pensato che avesse ragione; quando si scrivono racconti, bisogna accontentarsi di cominciare proprio da lì: facendo vedere come si comporta davvero certa gente, come si comporta a dispetto di tutto.
  Si tratta, certo, di un livello molto umile da cui partire, e infatti molti tra quelli convinti di voler scrivere racconti non sono disposti a cominciare da lì. Vogliono parlare di problemi, e non di persone, di questioni astratte, non di situazioni concrete. Hanno un’idea, un sentimento, un io strabocchevole, o vogliono Essere Scrittori, oppure elargire saggezza in forme abbastanza semplici perché il mondo sia in grado di assorbirle. In ogni caso, non hanno una storia in testa, e se anche l’avessero non sarebbero disposti a scriverla; in assenza di storia, partono alla scoperta di una teoria, di una formula o di una tecnica.

 

Altri post su scrittura e creatività:

Lo scrittore è un testimone, non un giudice – dalle lettere di  Čechov

Virginia Woolf a un giovane poeta

Una lezione di ignoranza di Daniel Pennac – I Passeur

La concezione del dolore secondo David Lynch

Share

Leave a Comment

Your email address will not be published.