Lo scrittore è un testimone, non un giudice – dalle lettere di Čechov

Tali sono la fama e il consenso che circondano Anton Čechov che quasi ogni scrittore (soprattutto di racconti) del XX secolo capace di farsi apprezzare dalla critica ha dovuto subire la gravosa (e spesso disattesa) definizione di figlio di Čechov o erede di Čechov.

Sarebbe impossibile, del resto, compilare una lista esaustiva di tutti gli autori – Raymond Carver forse il più famoso – che hanno considerato o tutt’oggi considerano Čechov come principale maestro.

Il suo epistolario, i suoi diari di viaggio, gli appunti sulle inchieste formano un vero e proprio manuale di scrittura creativa. Molto interessante, in tal senso, la raccolta Né per fama, né per denaro edita da BEAT. Al centro del testo c’è l’esperienza vissuta dallo scrittore sull’isola di Sachalin, che Čechov ha raggiunto, attraversando la Siberia, all’età di trent’anni, per verificare le condizioni di vita dei detenuti e delle loro famiglie. Effettuare quell’inchiesta ha tanto segnato l’autore russo da fargli poi dire: <<O il viaggio mi ha maturato o sono impazzito>>. Oltre ad arricchirci dal punto di vista della conoscenza storica, le sue considerazioni sul lavoro svolto presso l’isola di Sachalin possono insegnare tanto su come, anche oggi, si debba raccogliere materiale per un reportage.

Nelle altre sezioni del libro sono proposte lettere e appunti di Čechov sull’arte di scrivere e sulla società letteraria.  Tra i vari argomenti, Čechov parla della differenza, per un narratore, tra l’essere testimone o giudice:

  Testimone, non giudice

  A me pare che non tocchi ai letterati risolvere problemi come quelli di Dio, del pessimismo, ecc. Compito del narratore è soltanto di ritrarre chi, come e in quali circostanze ha parlato oppure meditato su Dio e sul pessimismo. L’artista non dev’essere il giudice dei suoi personaggi né di ciò che essi dicono, ma solamente un testimone spassionato. Io ho sentito un discorso sconnesso e inconcludente di due russi sul pessimismo e debbo riferire tale discorso nella stessa forma in cui l’ho udito; formulare un apprezzamento sarà cosa da giurati, cioè dei lettori. Io debbo cercare solamente d’aver talento, cioè di saper distinguere le deposizioni importanti dalle non importanti, di saper lumeggiare le figure e parlare il loro linguaggio. Ščeglòv-Leònt’ev m’incolpa di aver terminato il racconto con la frase: <<A questo mondo non si capisce un bel niente!>> Secondo lui, l’artista psicologico deve capire, per il fatto d’esser psicologo. Ma io non concordo con lui. Coloro che scrivono, e gli artisti in particolare, dovrebbero ormai riconoscere che a questo mondo non si capisce nulla, come a suo tempo lo riconobbero Socrate e Voltaire. La folla crede di sapere e di comprendere tutto, e più e sciocca, più sembra vasto il suo orizzonte. Ma se l’artista, a quale la folla crede, avesse il coraggio d’affermare che non capisce nulla di quel che vede, ciò costituirebbe da solo una grande conoscenza e un gran passo avanti nel campo del pensiero.

ad Aleksej Suvorin,

Sumy, 30 maggio 1888

 

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