A che ora e dove preferiva scrivere Cortázar?
Julio Cortázar, nato a Ixelles nel 1914, oltre a essere considerato tra i fondatori dell’iperromanzo per le caratteristiche del suo Rayuela (di cui abbiamo parlato qui), è autore di una produzione letteraria ampia e variegata.
Nel 1977, lo scrittore belga di nascita, naturalizzato francese ma cresciuto a Buenos Aires, ha rilasciato una lunga intervista alla televisione pubblica di una Spagna appena uscita dal franchismo (e nello specifico al giornalista Joaquín Soler Serrano). L’intera intervista (che si può guardare in lingua originale su youtube cliccando qui) viene riportata nel volume L’altro lato delle cose edito da Mimesis, da cui mi fa piacere riportare la domanda, e la conseguente risposta, sulle abitudini di scrittura di Cortázar.
Joaquín Soler Serrano: Scrivi seguendo degli orari prefissati, o scrivi quando hai l’assoluta necessità di farlo? Mi piacerebbe sapere, inoltre, se preferisci scrivere a casa o fuori casa, se riesci a isolarti in un bar o se, invece, hai bisogno del silenzio. A volte hai detto che non sai se sei tu a scrivere i tuoi racconti, o se ti sono dettati da qualche voce misteriosa, che ti fa sentire in uno stato che i francesi chiamano “état second”, che è una sorta di equilibrio tra l’astrazione e la concentrazione.
Julio Cortázar: La tua domanda contiene molti aspetti, ma potremmo cercare di sintetizzarla. In quanto alla nozione di orario, ti posso dire che non ne possiedo nessuna, l’idea stessa mi risulta insopportabile. Quando dovevo guadagnarmi da vivere con qualcosa che non aveva nulla a che vedere con la letteratura, non riuscivo a sopportare gli orari; in effetti, ho cercato sempre degli impieghi che mi obbligassero a lavorare al massimo due o tre ore, sebbene fossero retribuiti assai male, perché così potevo uscire ed essere me stesso. Ebbene, nel lavoro letterario accade la stessa cosa: non sono affatto disciplinato. Per esempio, ora sto scrivendo un testo che ho iniziato a “sentire” a Londra (dove sono stato quindici giorni fa), che poi è proseguito a Parigi e che ora ritorna ossessivamente qui a Madrid; perciò lo sto scrivendo in diversi pezzi di carta, senza alcuna soggezione a orari, semplicemente sta nascendo così, a momenti. Ma il racconto, in un certo senso, è già scritto, deve solo trasformarsi in parole, e in ciò costituisce il mio lavoro. Potrebbero susseguirsi nuove interruzioni, per tre settimane potrei non lavorare, non è importante, perché il testo è già scritto e lo terminerò la prima volta che mi troverò in un caffè o in un luogo dove si possa lavorare, in treno, in aereo o a casa mia. Come vedi, lavoro in un modo assai anarchico, senza alcun orario fisso, salvo nel caso in cui abbia raggiunto quello che tu chiamavi “état second”. Ma questa non è più una questione di orario, bensì un’ossessione, dato che si tratta di una sorta di stato ipnotico, che sopraggiunge quando sono arrivato al punto centrale di ciò che voglio dire; in quel momento mi sento vittima di ciò che sto facendo, ne sono posseduto. Tutta la parte finale di Rayuela fu scritta in condizioni fisiche tremende: mi ero dimenticato del tempo, non sapevo se era giorno o notte, e mi ricordo che mia moglie mi portava un po’ di minestra, oppure mi diceva che dovevo cercare di riposare, e tutto ciò per diverse settimane. Ma prima di arrivare a quel punto, erano passati due anni in cui non avevo fatto nulla, scrivevo cose in modo disorganico: un capitolo, poi un altro, ma a un certo punto giunge un momento in cui tutto si concentra, ed è quando bisogna terminare. Però non si tratta di una vera e propria nozione di orario, bensì di un’ossessione, di uno stato di concentrazione. In altri termini, se avessi già raggiunto quel momento per quanto riguarda il racconto di cui ti parlavo, avrei sicuramente trovato un pretesto per non venire qui; avrei cercato di evitare il nostro incontro, perché il racconto sarebbe stato più importante. Ma per non nostra fortuna non ho ancora raggiunto quello stadio.
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