Saltatempo di Stefano Benni

Saltatempo, romanzo di Stefano Benni (di cui abbiamo già visto qui  Bar Sport), inizia con un incontro inusuale: il protagonista, Lupetto, detto Saltatempo, negli anni cinquanta frequenta la elementari e vive in montagna; un giorno, mentre scarpagnava, cioè camminava a saltelli per via del dislivello, verso la scuola, ha incontrato un Dio, con le fattezze di un uomo alto come una nuvola, con una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto vestito di strati e stracci, con una capparella nera rappezzata di toppe lustre. Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro, e zoppica e rantola come se fosse pieno di brodo. Il dio ha un regalo speciale per Saltatempo: un orobilogio.

  – Non ti spaventare, ma tu vivrai sempre con due orologi, uno fuori e uno dentro. Quello fuori ti sarà utile per non fare tardi a scuola, quando aspetti la corriera e il giorno che muori, per calcolare quanto hai vissuto. L’altro, che comprende centosettantasei tempi protologici, novanta escatologici e trentasei tempi romanzati caotici, l’hai ingoiato da piccolo, anche se non ricordi. Chiamalo pure secondo orologio, anzi orobilogio. Ogni volta che sentirai il suo ticchettio, il gocciolare dell’acqua, le crome di un grillo, qualsiasi ritmo e balbettio del mondo, potrà succedere che l’orobilogio parta, non potrai fermarlo, e tu correrai avanti o scapperai indietro e vedrai cose e altre ne rivedrai.

Nonostante la presenza dell’orobilogio, Saltatempo non è un romanzo di fantascienza che racconta di viaggi nel tempo. È una storia strettamente legata al reale, è la storia del nostro Paese, una storia simile a quelle che tanti hanno vissuto o – nel caso di lettori più giovani – ascoltato dai propri genitori.

Saltatempo racconta l’infanzia e l’adolescenza in un posto dove ci si conosce tutti; il passaggio dal paese alla città; le assemblee studentesche; l’amore libero e l’amore negato; la tossicodipendenza; il capitalismo; la disillusione.

Proprio la disillusione gioca un ruolo importante, perché sia Saltatempo che quelli che sono stati i suoi maestri, hanno sempre creduto negli ideali di condivisione e solidarietà, e per loro non è facile accettare l’idea che le proprie speranze siano destinate a non realizzarsi. Libero, il padre di Saltatempo, dirà amaramente:

Ci hanno venduto, uno per uno. Hanno venduto le nostre povere vite e la nostra storia, per fare una storia insieme agli altri, una storia finta, che non ha neanche un lieto fine, finisce nell’indifferenza per tutto e per tutti. Se gli servirà a far voti, ci insulteranno pure.  

Questo però non significa che Saltatempo sia un romanzo triste, né tantomeno caratterizzato da un tono lamentoso. Per raccontare qualcosa di importante, e complesso, il miglior punto di vista è quello di un personaggio curioso e ottimista, che trasmette emozioni e non giudizi, come Saltatempo appunto, che per esempio parla della sua esperienza nella redazione provinciale della Gazzetta delle Valli così:

Al giornale imparavo grandi cose. Ad esempio che un vecchio di settant’anni in motocicletta si chiama comunque centauro. Che se in consiglio comunale si sono presi a cazzotti in faccia si deve scrivere «seduta accesa ieri in consiglio». Che se un disgraziato viene accusato si scrive «pesanti accuse a carico» e non lo si intervista, se è uno potente si scrive «avviata un’indagine» e si intervista l’indagato perché possa subito difendersi.

Non sarà, ovviamente, l’unica lezione che Saltatempo impara nel corso della storia. Tra le tante, la più importante probabilmente è:

E capii che nella vita non volevo diventare come certe persone, e avrei cercato con tutta la mia forza di essere come certe altre.

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